26 luglio, Sant’Anna. A Caserta la religione si mette in strada
Augusto Ferraiuolo*, foto di Bruno Cristillo
– Scrivere sulla festa di Sant’Anna è per me lavorare su un doppio registro: in primo luogo, quello del casertano che fin da bambino andava per bancarelle (un po’ meno per chiesa) e, in secondo luogo, quello dell’antropologo che si occupa di cose folkloriche, quindi anche di riti religiosi.
L’atteggiamento è quasi schizoide perché da un lato c’è l’affettività del partecipante e dall’altro una pseudo-oggettività che molti ritengono insita nell’osservazione del fenomeno culturale. Ma non è mia intenzione qui di annoiare con riflessioni su come sia la soggettività emotiva che l’oggettività scientifica siano in realtà solo dei falsi miti, in quanto tutti noi continuamente ci spostiamo su entrambi i fronti, senza sosta.
Il primo ricordo che ho è la lunga teoria di bancarelle che affollavano all’epoca corso Trieste, da quelle con le noccioline pralinate a quelle della “pesca miracolosa”, dove potevi comprare un numero e poi sperare di vincere qualcosa o perlomeno di entrare in quelle contrattazioni che il venditore faceva e in cui immancabilmente era il cliente a vincere. Mi ci è voluto parecchio per capire che forse c’era il trucco, ma … tant’è. Se dovessi dare un nome al sentimento predominante, direi senz’altro lo stupore per quell’eccezionalità che la festa porta sempre con sé. Soprattutto quella poi del Santo patrono (uno dei due, ma Sant’Anna è più sentita e vissuta rispetto a San Sebastiano, credo).
Saltando qualche decennio, il secondo ricordo che vorrei condividere ha a che fare con un momento di osservazione partecipante della festa. Di prima mattina arrivo alla chiesa di Sant’Anna. I fedeli sono già in chiesa e la statua della Santa è in bell’evidenza su un altare decorato con i rituali colori verde e giallo. Una decina di fedeli si avvicina alla statua e la tira fuori dal baldacchino. A spalla la statua viene portata fuori dalla chiesa. L’uscita è sottolineata da fuochi d’artificio. A questo punto una cosa mi colpì: la statua viene presa in custodia dagli accollatori. Anzi dalle accollatrici. Da un punto di vista antropologico le riflessioni da fare sono due: la presa in carico della statua da parte di membri di una associazione a sfondo religioso, ma comunque non immediatamente inserita nella gerarchia ecclesiastica significa la differente declinazione di una religiosità che specie nel Sud dell’Italia dimostra il doppio livello ufficiale/folklorico. Se il sacerdote rappresenta l’ufficialità canonica, gli accollatori rappresentano la fede popolare, quella che Robert Orsi chiama la religione delle strade. La seconda riflessione riguarda il ruolo femminile: di rado la preghiera del corpo rappresentata dall’accollarsi il peso del Santo è svolta da donne. Molto spesso le donne hanno altri ruoli. Ad esempio, quando ancora era possibile apporre soldi sulla statua del Santo, erano le donne a occupare il ruolo della mediazione. Cosa molto ovvia in una società certamente a sfondo maschilista, per cui l’uomo si prende letteralmente carico del peso, ma con aspetti criptomatriarcali, dove è la donna a gestire il piano economico. È ovvio che qui l’eccezione è assolutamente comprensibile, visto che Sant’Anna non solo è donna, ma è soprattutto madre e non una semplice madre, ma la Madre di Maria. L’eccezione dunque è quasi obbligatoria, in questo caso. Le donne, anch’esse vestite con i rituali colori, portano questo peso spiritualmente leggero e lo fanno procedendo con il caratteristico passo detto a cunnulella, tipico di quasi tutte le processioni. Si avanza lentamente perché i passi sono lenti e laterali, delle volte anche all’indietro, producendo quell’andamento ondeggiante della statua. Alcune di loro sono a piedi nudi, un altro dei tanti comportamenti penitenziali che la festa prevede. Fatto il giro della piazza, la Santa viene deposta sul palco dove poi si succederanno vari eventi, a sottolineare l’aspetto laico della festa. È l’inizio della festa. Non credo sia cambiato da quando la vidi, e non credo che cambierà se non in qualche dettaglio. Il rito è tale proprio per la sua immutabilità.
* Antropologo culturale, Lecturer alla Boston University
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