Socialite, oh yes! Quando manca la parola… in italiano
(Micol Forte*) – Un fenomeno linguistico che non desta quasi più stupore – ma che continua a indignare i cultori della lingua italiana – è il ricorso a un numero sempre più elevato di forestierismi all’interno di un medesimo testo, scritto o orale che sia. La stampa, in quanto mezzo di comunicazione di massa, non è indifferente a questa tendenza e forse, proprio in virtù della sua funzione informativo-divulgativa rivolta a un pubblico indifferenziato, accoglie in modo consistente prestiti e calchi – soprattutto di matrice inglese – probabilmente al fine di mostrarsi aggiornata sul lessico in uso nell’italiano contemporaneo. Così, anche nelle principali testate italiane, osserviamo l’apparizione massiccia (se non lo sfoggio ingiustificato) di anglicismi che, se sciorinati l’uno dopo l’altro nell’ambito di un medesimo discorso, trasmettono ai più sensibili in materia di tutela della lingua nazionale una sensazione di estraneità.
Un articolo pubblicato da un celebre rotocalco italiano in data 5 aprile 2016, e che ha come oggetto il fenomeno mediatico del momento, regala un’immagine nitida dell’impatto non trascurabile delle parole anglo-americane sul vocabolario nostrano: «Chiara Ferragni è la fashion blogger italiana più famosa al mondo: se per noi il suo caso – da più di 5,4 milioni di follower su Instagram e più di 14 milioni di visite al mese sul suo sito Web – è eclatante, è una notizia anche per Vanity Fair Usa […]. Nel 2010 ha ricevuto un biglietto in piedi per uno show di Cavalli. Due anni dopo, un posto a sedere per Chanel. Oggi, gestisce un impero online tra case a Beverly Hills e Milano e la maggior parte del suo staff è formato da donne di età inferiore ai 30. […] Al momento la 28enne conta su uno staff di 20 persone e, secondo il suo manager, ha guadagnato più di 10 milioni di dollari nel 2015 realizzati in pubblicità online, partnership e una linea di scarpe omonima. Non c’è da meravigliarsi che sia stata la prima blogger in assoluto a finire al centro di un case study della Harvard Business School. Cresciuta a Milano, dove sua madre lavorava nello showroom del brand italiano Blumarine, come molti millennial attenti alla moda documentava giorno per giorno il suo outfit su Flickr. Sul suo blog The Blonde Salad, lanciato nel 2009, ha iniziato postando foto di se stessa con outfit così ben studiati da diventare tendenze. […] The Blonde Salad è oggi un brand a tutti gli effetti[…]. Oggi Chiara, forte di nuove e continue conferme (come il premio Blogger of the year ai Bloglovin’ Awards 2015 e il ruolo di global ambassador per Pantene), vive a Los Angeles, con incursioni a Milano dove ha lo show room ed è una vera e propria socialite».
Ed è esattamente su quest’ultimo termine che si intende soffermarsi, in quanto è forse il meno adoperato in Italia tra quelli riportati, e probabilmente il più recente per data di adozione. Frutto di un processo di derivazione instauratosi tra l’aggettivo social e il suffisso –ite, (ricorrente nella formazione di sostantivi che indicano l’essere nativo o abitante di un luogo, o l’essere seguace o difensore di un movimento), socialite (in alfabeto fonetico internazionale /ˈsoʊʃəˌlaɪt/) indica secondo il Collins English Dictionary “a person who is or seeks to be prominent in fashionable society” (“una persona che è o ambisce ad essere importante in un ambiente alla moda”). Il Collins propone per il temine indagato un contesto d’uso reale, estratto dal giornalismo: “A socialite is a person who attends many fashionable upper-class social events and who is well known because of this” (“Un socialite è una persona che frequenta molti eventi alla moda dell’alta società e che è nota per questo motivo”). Stando all’Online Etymology Dictionary, la prima attestazione scritta di socialite risale al 1928 e si trova sulla rivista “Time”, dove possiede l’accezione di “pertaining to high society” (“appartenente all’alta società”); inoltre, tale neologismo, costruito sul modello delle parole in –ite, sarebbe nato allo scopo di rievocare l’espressione social light. Ad ogni modo, pare assodato che il concetto legato al termine in questione avesse attecchito già nel XVIII secolo, allorché le donne della nobiltà erano solite dedicare il tempo libero all’organizzazione o alla partecipazione a eventi sociali, anche di natura benefica. Nel XIX secolo, con l’aumentare della ricchezza negli USA, il termine consolida la propria accezione di “persona ricca e socialmente riconosciuta” tanto che oggigiorno la linea di demarcazione tra socialite e celebrità dallo stile di vita gaudente risulta sfumata a causa del fenomeno della mediatizzazione.
Per quanto riguarda il versante italiano, socialite non è ancora lemmatizzato nei maggiori dizionari e vocabolari monolingui disponibili online (Treccani, Hoepli, Sabatini Coletti, Garzanti, De Mauro); tuttavia esso è presente nelle banche dati dei quotidiani “Repubblica” e “Corriere della Sera”, rispettivamente con 42 e 40 occorrenze, la meno recente delle quali – presente sul quotidiano fondato da Scalfari – data 2 dicembre 1986: “[Cary] Grant è il rappresentante della “upper class”, il “socialite”, l’uomo in frac. Ma si scoprì presto che la sua eleganza era un fatto interiore, il frac l’aveva cucito sotto la pelle”.
Interessante è il trattamento lessicografico che il bilingue Garzanti riserva al termine: inteso quale americanismo relegato all’uso familiare, l’equivalente italiano sarebbe non un traducente preciso, bensì la parafrasi vaga “persona che fa vita mondana”.
Benché sia ancora avvolto da una certa indeterminatezza semantica che oscilla tra le definizioni “persona socialmente influente” e “persona che ostenta la propria vita mondana e che è famosa per questo motivo”, socialite è ormai entrato nel novero dei termini presi in prestito dall’inglese e di cui facciamo sempre più spesso un inutile abuso.
*Dottorato di Ricerca in “Eurolinguaggi e Terminologie Specialistiche”, Università di Napoli “Parthenope”
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