25 giugno, è qui la festa. A Nola lo straordinario rito dei Gigli
– Per la ricorrenza di San Paolino, ogni anno a Nola si svolge una delle più interessanti feste del Sud Italia. È il giorno durante il quale i gigli vengono portati in processione, a spalla, per le vie della città. Ovviamente questo è il climax di una cerimonia che in realtà dura tutto l’anno, visto che la preparazione delle macchine e di chi dovrà portarle, ivi compreso i musicisti che troveranno posto proprio alla base del giglio, dura tutto l’anno e praticamente pervade la vita dei Nolani quotidianamente. Ho espresso il mio parere sulla non accuratezza della distinzione tra tempo quotidiano e tempo cerimoniale in altra sede [1] e quanto accade a Nola conferma che la festa è una performance continua, che ovviamente raggiunge la sua espressione più distinguibile nel giorno rituale. Secondo la leggenda i Visigoti saccheggiarono Nola, presumibilmente nel 409 d.c., facendo prigionieri moltissimi cittadini. Il vescovo Ponzio Anicio Meropio Paolino di Bordeaux (355-431), di famiglia ricchissima, pagò con le sue risorse i riscatti. Ma non fu abbastanza, perciò offrì se stesso come ostaggio, in cambio della libertà di altri, per l’esattezza, secondo i Dialoghi di Gregorio Magno, al posto del figlio di una vedova. Rimase prigioniero in Africa e al suo ritorno la città gli rese omaggio, offrendogli dei gigli, che poi col tempo vennero sostituiti da grossi ceri, per giungere poi alle attuali macchine di cartapesta e legno.
La festa risulta documentata a partire dal 1500, con la cronaca dello storico nolano Ambrogio Leone, ma il termine giglio, a indicare le macchine portate in processione, viene usato per la prima volta dal sacerdote e archeologo Gianstefano Remondini nei suoi scritti settecenteschi, così come il primo riferimento alla “barca” – una delle macchine portate a spalla e chiaro simbolo che ricorda il ritorno in patria di Paolino – è del 1747.
Ferdinand Gregorovius, lo storico tedesco, nelle sue Passeggiate per Italia, vol. 4, illustra la festa come la vide lui nel 1853: “Vidi una specie di torre, alta, sottile, tutta ornata di carta rossa, di dorature, di fregi d’argento, portata sulle spalle da uomini. Era divisa in cinque ordini, a piani, a colonne, decorata di frontespizi, di archi, di cornici, di nicchie, di figure e coperta ai due lati di numerose bandiere. Le colonne erano rosse, lucide, le nicchie dorate all’interno e guarnite di rabeschi assai originali; le figure rappresentavano geni, angeli, santi, guerrieri, tutti vestiti nelle fogge più strane ed erano collocati gli uni sopra gli altri, e tenevano in mano corni, mazzi di fiori, ghirlande e bandiere. Tutto si moveva, tremava e svolazzava, e la torre stessa, portata da circa una trentina d’uomini robusti, oscillava essa pure. Nel piano inferiore stavano sedute alcune ragazze, incoronate di fiori, in mezzo ai suonatori, i quali facevano un chiasso indescrivibile con trombe, tamburi e triangoli”.
In questa descrizione sono evidenti i tratti che ancora caratterizzano la festa: la macchina, la paranza dei portatori, la musica. Infatti è ipotizzabile che la codifica dell’evento attuale avvenga proprio intorno alla metà del 1800. Ad esempio l’altezza di 25 metri viene stabilita tra il 1866 e il 1855. I gigli sono otto, rappresentanti delle corporazioni di mestieri, più la Barca. Costruiti in legno, vengono rivestiti di cartapesta per tutta la loro altezza, e sono possibili grazie alla questua che comincia da aprile. La vestizione, o addobbatura, comincia alcuni giorni prima della festa ed è lo spazio per la creatività per i decoratori. Alla fine della vestizione il giglio può pesare circa 40 quintali. La domenica, con la cerimonia detta “allazzatura delle varre”, le travi che sosterranno il giglio, la cerimonia finale ha inizio. La “paranza” (termine che per la prima volta compare nel 1891, a indicare il gruppo dei fedeli che porta a spalla la macchina) è riunita intorno al suo giglio e tra poco prenderà posto sotto le travi per quella che rimane una intensa preghiera del corpo, attraverso la mortificazione e la penitenza. Dopo un lungo processo, i gigli sono diventati patrimonio UNESCO nel 2013, insieme alle “altre macchine dei Santi”, vale a dire la “faradda di li candareri“ di Sassari, la “Macchina di Santa Rosa” di Viterbo e la “Varia” di Palmi.
È quasi inutile ribadire che la festa è estremamente complessa e richiederebbe descrizioni e analisi ben più complesse, che non possono essere offerte qui e adesso. Perciò rimando un eventuale approfondimento all’ottimo testo di Katia Ballacchino, Etnografia di una passione: I Gigli di Nola tra patrimonializzazione ai tempi dell’UNESCO, ed. Armando, 2015, e soprattutto, per chi può, a una andata a Nola per osservare, anzi per vivere, la festa.
[1] Augusto Ferraiuolo, Religious Practice in Boston’s North End. Ephemeral Identities in an Italian-America Community. Albany, SUNY, 2010.
* Antropologo culturale, Lecturer alla Boston University
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