Aldo Moro, quarant’anni dopo. Era il volto umano della politica
Luigi Pezzella
– Sono trascorsi ben quarant’anni dal 9 maggio 1978, dall’assassinio del presidente Aldo Moro, dopo quei 55 giorni di prigionia che videro un Paese intero afflitto e segnato da un profondo senso di smarrimento. Ancora oggi l’unico ricordo è quello di un corpo morto, sporco di sangue, piegato su se stesso nel vano-bagagli di una Renault 4 di colore rosso e pronto per essere mostrato al mondo come quel “Cristo crocifisso” durante il Venerdì santo.
La morte di Aldo Moro – che può essere associata a quella di Pier Paolo Pasolini – trova nei suoi “assassini” non solo il desiderio di creare una forte instabilità politica e istituzionale, colpendo al cuore dello Stato utilizzando uno dei suoi migliori uomini politici, ma di porre fine ad un’eredità di pensiero che in Aldo Moro trova la sua assoluta e pura compiutezza. Sulla scorta di quanto appena detto, vi è oggi – dopo ben quarant’anni – l’urgenza e la necessità di procedere ad un processo di astrazione, utile a ridare dignità e vita al suo pensiero, provando a eliminare dalla mente l’immagine di quel corpo finito e privo di vita, evidenziando come dietro i suoi discorsi, le sue lezioni e quel linguaggio che può sembrare criptico e quindi di difficile comprensione, vi sia tutto il presente e “forse” il futuro, sotto l’aspetto politico e sociale. E questo vista soprattutto la delicata e drammatica situazione politica che il martoriato Paese sta subendo in questi giorni, generando nei confronti del popolo un forte odio sia verso quella stessa democrazia che sembra non “funzionare” più rispetto a quando c’erano i partiti politici di una volta sia nei confronti di chi dovrebbe rappresentare per una buona volta gli interessi di tutti e non solo quelli di se stesso, portando nelle opportune stanze i problemi presenti e ben visibili della nostra società civile.
Ecco l’urgenza di riprendere e rileggere il pensiero moroteo, quarant’anni dopo la sua morte. Aldo Moro – grazie anche agli anni di formazione trascorsi nei banchi della Fuci sotto la guida spirituale di Giovanni Battista Montini (futuro Papa Paolo VI), dove ha la fortuna di avvicinarsi alle opere filosofiche di Maritain e Mounier – sia nelle vesti di professore universitario sia nelle vesti da membro della Costituente e infine di politico, fino a ricoprire il ruolo di Segretario Nazionale della Dc, non smise mai di presentarsi come l’uomo dell’ascolto, eliminando ogni forma di diseguaglianza tra i vari “ceti sociali”. Per Moro nello Stato democratico – che nascerà dalle ceneri del ventennio fascista – tutti dovevano essere parte attiva e quindi il primo motore di questa democrazia che doveva fare di ogni singola «persona» – spogliando definitivamente l’uomo da quell’astrattismo che lo rendeva solo un soggetto o individuo da governare – la base sulla quale la democrazia doveva reggere. A tal proposito fu proprio Aldo Moro a dare una forma geometrica a un famoso intervento di Giuseppe Dossetti e proporre così la figura della “piramide rovesciata o capovolta”: cominciare dai diritti della persona, poi passare a quelli delle formazioni sociali (famiglie, sindacati, confessioni religiose, partiti), infine, terminare con gli organi istituzionali (Stato, regioni, autonomie locali, organi di garanzia). Qui si evidenzia come Aldo Moro rifiuti quella concezione dello “Stato etico” e ponga al centro l’uomo che – in quanto persona – dovrà venire prima dello Stato e non viceversa. Porre al centro e alla base di tutto la persona, significa per Moro stesso spogliarla da ogni forma di oppressione, garantendo la sua libertà e la sua dignità e facendo della sua possibilità di instaurare relazioni con gli altri lo strumento per rafforzare la stessa democrazia.
In un celebre discorso pronunciato a Milano il 3 ottobre del 1959, Aldo Moro dichiarò: “La prima espressione della nostra visione democratica, particolarmente sottolineata dall’ispirazione cristiana del movimento, è il pluralismo sociale come conseguenza dell’insufficienza dello Stato a riassumere ed esaurire nel proprio schema il complesso dei rapporti sociali. […] Lo Stato democratico, lo Stato dal valore umano, lo Stato fondato sul prestigio di ogni uomo e che garantisce il prestigio di ogni uomo è uno Stato nel quale ogni azione è sottratta all’arbitrio ed alla prepotenza, in cui ogni sfera d’interesse e di potere obbedisce a una rigida delimitazione di giustizia, a un criterio obiettivo e per la sua natura liberatore. […] Ma la democrazia non è soltanto espressione di libera iniziativa, di rapporto regolato, di tutela della persona, di espansione dello spazio umano nella società, non è solo espressione della libertà insomma, ma anche approfondimento della dignità umana nel suo pieno significato, nelle sue integrali aspirazioni ed esigenze, nella sua spinta di espansione e di partecipazione ai beni del mondo.
Aldo Moro in queste parole si fa promotore di una vera e autentica rivoluzione culturale e politica, dove ogni singola persona – nella sua individuale libertà senza che questa però diventi un pericolo per gli altri – dovrà trovare all’interno dello Stato tutte quelle garanzie utili a quel processo di espansione e liberazione dell’uomo stesso, primo fra tutti quello di essere in dialogo con tutti. Occorre che la persona sia libera da ogni forma di oppressione, plasmata sulla scorta di valori umani – dove l’altro non è visto come un nemico ma come strumento di rafforzamento – e trovi il suo ingresso all’interno dello Stato. Come è possibile attuare tutto ciò? – Qui la funzione dei partiti nella visione di Aldo Moro: “Fra i compiti che noi abbiamo, noi partiti, noi partiti democratici soprattutto, è la difesa della libertà. I partiti democratici, questi grandi organi di indirizzo della opinione pubblica, sono mobilitati per far manifestare e per difendere e per valorizzare la libertà. Siamo per la libertà in tutte le sue manifestazioni: vogliamo l’uomo libero dalla oppressione, l’uomo libero dalla ignoranza, l’uomo libero dalla insensibilità, l’uomo libero nella sua vita spirituale, l’uomo libero nel suo rapporto con Dio. […] Il partito vuole aderire alla realtà, per orientarla e plasmarla secondo la sua intuizione, alla luce dei suoi ideali umani. Perché un partito, e soprattutto un partito come il nostro, è un punto di passaggio obbligato dalla società allo Stato, dal particolare all’universale, dal fatto alla legge. Esso è chiamato alla comprensione della realtà, ma anche a dare un giudizio su di essa e un principio di orientamento”.
Aldo Moro propone una mutazione anche per quanta riguarda il partito politico, infatti, egli cercherà di annullare quella concezione del partito visto solo ed esclusivamente come centro di potere e di “garanzia elettorale”. Per Moro, il partito dovrà svolgere in primis la funzione di “analisi” della società e secundis di “guida” per tutti, affinché una qualsiasi scelta politica o economica possa essere messa in atto senza mai di perdere di mira quella che è la realtà effettuale. Il partito per Moro assume le caratteristiche di una vera e propria “scuola” di vita e di formazione politica, dove tutti dovranno essere accolti e resi parte attiva all’intero dello Stato e pars costruens della democrazia stessa. A tal proposito Aldo Moro in uno splendido intervento del 27 gennaio 1962 a Napoli, durante l’ottavo Congresso nazionale della Dc, dirà: “Ma le democrazie moderne con una vastissima base popolare, con il necessario raccordo tra potere di vertice e fonte del potere, con il significato sostanziale e non meramente formale che assumono, non possono fare a meno della iniziativa politica dei partiti e dell’opera di mediazione che essi svolgono, per dare efficace ispirazione ed effettiva base di consenso, in ogni momento, allo Stato democratico.
Chiaramente Aldo Moro sta spiegando come la democrazia non può fare assolutamente a meno dei partiti politici, in quanto grazie a loro s’instaura quel meccanismo di mediazione tra le persone, la realtà che li circonda e lo Stato democratico che dovrà poi procedere a quel processo di “sintesi” e trovare nel dialogo con tutti – forze politiche comprese – una via di collaborazione utile alla salvaguardia di quei valori che possono mettere in uno stato di instabilità l’uomo assieme a quel processo di espansione democratica. Ecco la funzione del dialogo che in Aldo Moro ha un valore “essenziale” nella vita degli uomini e che non dovrà mai essere posto in una situazione di pericolo. La possibilità di dialogare, di essere liberi e di entrare quindi in quel meccanismo fatto di relazioni – che per Moro sono valori offerti dalla democrazia stessa – permettono all’uomo-persona di riscoprire la sua vera natura e di essere. Indimenticabili furono le parole di Aldo Moro pubblicate su Il Giorno il 10 aprile del 1977: “Non è importante che pensiamo le stesse cose, che immaginiamo e speriamo lo stesso identico destino, ma è invece straordinariamente importante che, ferma la fede di ciascuno nel proprio originale contributo per la salvezza dell’uomo e del mondo, tutti abbiamo il proprio libero respiro, tutti il proprio spazio intangibile nel quale vivere la propria esperienza di rinnovamento e di verità, tutti collegati l’uno all’altro nella comune accettazione di essenziali ragioni di libertà, di rispetto e dialogo”.
Giungendo alle conclusioni, si comprende come Aldo Moro in tutte le sue vesti, non ha mai smesso di proporre un’ideale di democrazia capace di fare della persona – così come dirà nelle sue lezioni di filosofia del diritto – inizio e fine dell’esperienza giuridica. La democrazia stessa non potrà mai fare a meno della persona e non potrà mai essere distaccata da essa, poiché nell’ottica di Moro, lo Stato democratico può essere costruito solo se verranno posti e garantiti quei valori fondati sull’eguaglianza e della libertà, senza mai dimenticare la conservazione e la salvaguardia della dignità di ogni singola persona all’interno dello Stato e all’interno di un pluralismo sociale. Le parole di Moro pronunciate durante la sua relazione al VII Congresso nazionale della Dc, a Firenze, il 24 ottobre del 1959 ci permettono di cogliere questo passaggio fondamentale nell’ottica del pensiero moroteo: “In una società democratica, come quella che abbiamo contribuito a delineare nella Costituzione e che vogliamo costruire nella realtà vi è un problema fondamentale di valorizzazione generale e compiuta dell’intera società. […] Nessuna persona ai margini, nessuna persona esclusa dalla vitalità e dal valore della vita sociale. […] La conciliazione delle masse con lo Stato, il superamento dell’opposizione tra il vertice e la base: non lo Stato di alcuni, ma lo Stato di tutti; non la fortuna dei pochi, ma la solidarietà sociale, resa possibile dal maturare della coscienza democratica e alimentata dalla consapevolezza del valore dell’uomo e delle ragioni preminenti della giustizia.
A quarant’anni dalla morte, se andassimo a rileggere tutto quello che ha voluto lasciarsi lo stesso Aldo Moro durante gli anni della sua vita, troveremo sicuramente nelle sue parole e in quel linguaggio seppur criptico, una contemporaneità da far paura. Con Moro la democrazia stava vivendo la sua stagione peggiore, basti pensare come durante 55 giorni che lo videro prigioniero delle Br, il nostro paese era ormai spoglio da ogni forma di sicurezza e di garanzia politica. In quei 55 giorni, Aldo Moro oltre a subire tutta quella gratuita violenza in nome e in difesa di quella Ragion di Stato (rif. Lettera a Cossiga) – evidenziando e cercando di rivoltare quel rapporto tra verità e potere, chiedendosi fino a che punto valesse la vita di un uomo innocente – non smise mai di ricordare a tutti noi, compresi gli amici del suo partito, che la verità – seppur difficile da dire – è sempre illuminante poiché ci aiuta ad essere coraggiosi.
A quarant’anni dalla morte, il presidente Aldo Moro – nonostante tutto quello che ha dovuto subire, nonostante la sua grande spiritualità interiore e la speranza di essere salvato e di riabbracciare la sua famiglia – non ha smesso di parlare e di lanciare quell’ennesimo grido di speranza nei confronti di una politica che, se non ritornerà a guardare e ascoltare ogni singola persona che bussa alle porte di una democrazia ferita, non potrà mai andare avanti nel suo processo di “rinnovamento”, poiché quel pluralismo sociale andrà altrove e metterà in serio pericolo l’intero assetto democratico.
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