Cybercondria, ovvero l’ipocondria ai tempi di dr. Google
“Je suis malade… Vite, sur Internet !”, titola il quotidiano francese Le Monde nel 2011. Se, infatti, in seguito a un malessere fisico di qualsiasi natura, il primo impulso è quello di rivolgervi a Dr. Google, potete considerarvi cybercondriaci. Il termine cybercondria (noto anche come ipocondria da web o ipocondria digitale) è un neologismo portmanteau ottenuto dalla fusione di due parole: “cyber” e “ipocondria”. Il confisso inglese cyber che deriva dal sostantivo cybernetics (cibernetica) presente in diversi neologismi (cybermedicina, cyberpaziente, cyberbullismo, cyberattacco, etc.), ha recentemente fatto discutere l’Accademia della Crusca che suggerisce di prediligere “ciber” con una grafia e una pronuncia italiane e di conservare quelle inglesi solo nei casi in cui il secondo elemento non è italiano o non è adattabile all’italiano. Il termine ipocondria introdotto nel IV secolo a.C. dal famoso medico greco Ippocrate di Kos, invece, deriva dal greco ὑποχόνδριος (ipocondrio) e significa letteralmente “sotto la cartilagine”.
L’ipocondria ha radici ancestrali come testimoniano le argomentazioni di Epicuro contro la paura del dolore e della morte. Uno degli ipocondriaci più famosi della letteratura è senza dubbio Argante, il celebre “malato immaginario” descritto da Molière nel 1673 nel suo romanzo Le Malade imaginaire. Altri personaggi ossessionati dalla propria salute sono presenti in Carlo Goldoni, Charles Darwin, Marcel Proust o ancora in Woody Allen, per citare qualche esempio.
La pandemia COVID-19 ha sicuramente incentivato la diffusione della cybercondria, ma tale fenomeno ha radici risalenti all’avvento di Internet. Una recensione della pubblicazione del British Medical Journal of Neurology, Neurosurgery, and Psychiatry del 2003, afferma, infatti, che il termine cybercondria è stato utilizzato nel 2001 in un articolo del quotidiano britannico The Independent per descrivere l’uso eccessivo di Internet alla ricerca di siti che trattano di salute. Più precisamente, White e Horvitz (2008) hanno definito la cybercondria come una “infondata escalation di preoccupazioni riguardanti una sintomatologia comune, basata su risultati di ricerca e articoli trovati sul web”. Gli autori hanno, inoltre, rilevato che la ricerca di sintomi sui motori di ricerca fornisce perlopiù informazioni su malattie gravi e/o fake news, portando così gli individui ad autodiagnosticarsi patologie di cui, nella maggior parte dei casi, non sono affetti. Invece di attribuire le cause di un mal di testa mattutino cercate su Google a un semplice periodo di stress, un cybercondriaco tenderà, ad esempio, ad autodiagnosticarsi un tumore al cervello. Secondo diverse informazioni mediche reperibili online, infatti, uno dei primi sintomi di un tumore cerebrale potrebbe essere il mal di testa al risveglio.
I soggetti ipocondriaci ignorano, talvolta, che Internet è un mare magnum e pongono scarsa attenzione alla provenienza e all’attendibilità delle fonti consultate fino ad arrivare a sviluppare forti stati d’ansia o a comportamenti dannosi come il “fai da te”.
Se prima dell’avvento di Google, le principali fonti informative a disposizione dei cittadini erano il tradizionale incontro medico-paziente, quotidiani, libri, enciclopedie e riviste mediche, la reperibilità di informazioni mediche a portata di clic, ha aumentato la probabilità di sviluppare situazioni di stress correlate alla propria salute. Su diversi siti, blog, forum e social network si sta, infatti, costruendo un vero e proprio sapere scientifico profano e divulgativo, complementare al sapere esperto dei medici e diverse sono le pagine Facebook e/o Instagram che trattano la problematica con ironia (e.g. la pagina Facebook e Instagram Diario di un ipocondriaco).
In un’era sempre più virtuale, caratterizzata da telemedicina, app per la salute e teleconsultazioni (e.g. l’app Doctolib), potrà Dr. Google arrivare a rimpiazzare completamente la diagnosi fisica del medico?
*Dottorato in Eurolinguaggi e Terminologie Specialistiche – Università degli Studi di Napoli “Parthenope”
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