De re coquinaria di Apicio, ricette e golosità nell’antica Capua
– Campani, così, nel I secolo a.C., Cicerone chiamò gli abitanti dell’antica Capua; lo stesso filosofo definì poi la città Altera Roma, per la vita lussuosa che vi si conduceva e per la ricchezza, nonché la fertilità della sua terra, la cui organizzazione agraria era stata ripartita in centurie.
Ortaggi, verdure e frutta di ogni sorta venivano coltivati e raccolti per esser condotti sulle tavole degli stessi capuani, ma anche dei commensali romani. Gli stessi prodotti venivano poi impiegati come materia prima indispensabile alla preparazione di prelibate pietanze o anche di semplici vivande, il cui consumo avveniva nell’arco della giornata.
Nel mondo antico, abitualmente, tre erano gli appuntamenti giornalieri con il cibo: lo jentaculum, cioè la colazione frugale che veniva fatta al mattino presto, il prandium, composto da un leggero pranzo che si teneva intorno a mezzogiorno, e la coena, che, oltre a rappresentare il pasto principale, si svolgeva a partire dal pomeriggio e, in particolari occasioni, poteva durare fino all’alba.
Per ogni refezione vi erano appositi alimenti, vegetali o animali, che venivano approntati o cucinati seguendo un vero e proprio disciplinare che cambiava a seconda dell’occorrenza.
Ad esempio, le pietanze mattutine potevano essere composte dagli avanzi della sera precedente oppure potevano essere a base di pane e formaggio, magari accompagnati da olive e miele, il tutto preceduto da un bicchiere d’acqua; per i più fortunati, invece, c’era la possibilità di mangiare pane intinto nel vino dolcificato; ai bambini, infine, erano riservate dolci focacce e latte appena munto. Giunti a metà giornata, chiunque avvertiva la necessità di rifocillarsi e, pur non stando presso la propria abitazione, si fermava per allestire un piccolo banchetto con pane, nuovamente sfornato da qualche pistrinum ancora attivo, carne fredda, pesce, legumi, uova, fichi e un po’ di mulsum, il vino mescolato al miele. Generalmente si trattava di cibi e bevande che venivano acquistati da venditori ambulanti che sostavano nelle vicinanze dei luoghi più importanti della città capuana: dal foro all’anfiteatro. Soltanto per il terzo rendez-vous con i pasti il nucleo familiare si riuniva intorno al desco e pertanto le pietanze assumevano un’elaborazione più complessa, specialmente quando vi erano degli ospiti da omaggiare e si doveva, quindi, allestire un convivium; banchetto che, in età repubblicana, si teneva in piedi, mentre, a partire dall’età imperiale, iniziò ad esser predisposto nel triclinio, sala da pranzo dotata di letti su cui si adagiavano i commensali, di cui nell’antica Capua ne resta un’importante testimonianza nella Domus di Confuleius.
A seguito del sempre più crescente successo delle cene conviviali, anche i piatti da presentare divennero più sofisticati, di cui sono pervenute numerose ricette riportate da Apicio nel suo De re coquinaria; testimonianze di singolari piatti di carne, pesce e verdure la cui preparazione era possibile solo attraverso la trasformazione di prodotti d’eccellenza che, per la maggiore, provenivano dalla Campania Felix.
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