Infodemia ovvero la comunicazione ai tempi del Covid
Estela Hamiti – (Dottorato in Eurolinguaggi e Terminologie Specialistiche – Università Parthenope)
Tra le cose che sicuramente non dimenticheremo di questa pandemia anno domini 2020 vi è la sarabanda di (dis)informazioni scaturita dall’emergenza coronavirus Covid-19 (di recente ribattezzato con il nome di SARS-CoV-2) ed esplosa in modo virale su vari mezzi di comunicazione di massa, tra cui i nuovi media (YouTube, i social network ecc.).
Ed è proprio sui media, social media e, mai come ora, sulle piattaforme digitali di messaggistica istantanea (primo fra tutti Whatsapp) che è divampata una proliferazione rapida ed eccessiva di notizie, molte delle quali infondate e devianti, notoriamente definite fake news. Ma poiché il termine inglese fake news (infox per i francesi) non era probabilmente sufficiente a rappresentare a pieno la realtà hic et nunc, come ogni nuova situazione e concetto che risponda a specifiche necessità di espressione, ci si è serviti di un neologismo ritenuto più esaustivo e che ha conquistato tutte le testate giornalistiche: infodemia.
Il termine è apparso originariamente in inglese (infodemic), in un recente comunicato stampa dell’OMS (febbraio 2020): “But we’re not just fighting an epidemic; we’re fighting an infodemic. Fake news spreads faster and more easily than the virus, and is just as dangerous”. Come in inglese, anche in italiano, il termine “infodemia” viene utilizzato metaforicamente per designare una “epidemia di informazioni” ovvero una circolazione incontrollata di notizie propagatasi, come una pandemia, a livello globale e che, al pari della pericolosità di un virus contro il quale non si è ancora trovato il vaccino, mette a repentaglio la salute pubblica: “and is regarded as intensifying public speculation and anxiety”, chiosa la BBC citando la definizione che l’OED (Oxford English Dictionary) dà di infodemic.
Definito su molte testate come neologismo inventato per l’occasione dall’OMS (c’è anche chi specula sull’origine del nuovo costrutto attribuendolo a Lewis Carroll), ad una più attenta analisi si scopre, grazie anche all’accuratissima ricerca di Licia Corbolante nel suo interessantissimo blog Terminologia etc., che in inglese infodemic è stato coniato come parola d’autore nel 2003 dal professore e giornalista americano David J. Rothkopf. Sempre nel suo blog, apprendiamo che anche in italiano il fenomeno era già stato descritto da Giancarlo Manfredi nel 2015 nel libro “Infodemia. I meccanismi complessi della comunicazione nelle emergenze”.
In linguistica, “infodemia” è un calco dall’inglese infodemic. Dal punto di vista morfologico, si tratta di una parola macedonia composta dalla fusione di due parole: informazione ed epidemia. Etimologicamente parlando, come si legge sulla Treccani, il sostantivo “informazione” deriva dal verbo latino “informāre” e designa l’atto dell’informare, letteralmente di dare cioè forma e modellare qualcosa, e per traslato, formare la mente, istruire, educare. Il lemma “epidemia”, invece, ha origine dal greco ἐπιδημία (epidemìa) da ἐπί (epì) = sopra + δῆμος (dèmos) = popolo, cioè che riguarda il popolo, che è diffusa tra il popolo, che incombe sopra il popolo.
Ma in questo ginepraio di parole ed espressioni la creatività linguistica non si è messa in quarantena. Difatti, infodemia non è l’unico neologismo figlio del Covid-19. Basta una semplice ricerca su Google, su siti affidabili, per scoprire nuovi neologismi, tra cui “CoronaDating”, “furbetto del contaggio”, “furbetto della quarantena”, “lockdown”, “covid bond”, “furbetto dell’autocertificazione”, “Quarantini” (un nuovo cocktail). E a proposito di cocktail, in Giappone hanno coniato il termine on-nomi (lett. “bere online”), per designare l’aperitivo virtuale. Sempre online gli inglesi hanno coniato uno dei neologismi più in voga del momento “covidiot”, mentre in Spagna – si legge su Verne di El País – coloro che durante la “corontena” insultano, dai balconi degli appartamenti, i passanti avvistati per strada, giustificate o meno che siano le loro motivazioni, vengono definiti “balconazis” (per estensione i poliziotti dei balconi). In francese c’è la quatorzaine (quarantena di 14 giorni), mentre in America ci si riferisce al virus con l’appellativo di Miss Rona o The Rona (slang per coronavirus Covid-19). E poi c’è il termine tedesco “hamsterkauf” (letteralmente “acquisti da criceto”) che si riferisce “agli accaparramenti nei supermercati esplosi anche in Germania a seguito delle notizie sulla diffusione del coronavirus”, come si legge su giornaletrentino.it. Non è un termine nuovo in tedesco, ma data la sua recente diffusione su testate anglofone, ci si chiede se diverrà un prestito linguistico in inglese. Solo il tempo ci dirà se tutti questi neologismi nati per accattivare l’opinione pubblica verranno successivamente lemmatizzati o se, com’è stato destino di molti, cadranno nel dimenticatoio.
I mezzi di comunicazione di massa, da sempre ma oggi più che mai, hanno contribuito a modellare pensieri, parole e comportamenti dell’opinione pubblica, alimentando il fuoco della psicosi collettiva, modificando la percezione della realtà, anzi la realtà stessa. Ancora una volta fa riflettere l’importanza di un corretto utilizzo e scelta delle parole e del loro peso. In attesa di un vaccino per il Covid-19, la cura per l’infodemia è già alla portata di tutti. Si tratta di un responsabile utilizzo di mass media e social network, limitandone l’uso ed affidandosi solo a fonti certe. Non da ultimo, segnalare eventuali false notizie, diventando promotori di una sana, vera informazione.
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