La legalità secondo Cafiero de Raho, incontro al Borgo di libri
– «Giuseppe Salvia venne ucciso perché rappresentava lo strumento dello Stato per scalfire un sistema criminale che trovava piena attuazione nel carcere di Poggioreale». Così Federico Cafiero de Raho, procuratore nazionale antimafia e antiterrorismo, intervenendo alla presentazione del libro di Antonio Mattone «La vendetta del boss. L’omicidio di Giuseppe Salvia», Guida editori. L’evento tenutosi nella Cattedrale di Casertavecchia rientrava nella quarta edizione del festival «Un borgo di libri», dedicato alla letteratura e alla scrittura, ideato e curato da Luigi Ferraiuolo. Con Antonio Mattone e Federico Cafiero de Raho anche don Nicola Buffolano, parroco della Protocattedrale di Caserta. A portare la sua testimonianza Antonino Salvia, figlio di Giuseppe. L’incontro è stato moderatore da Claudio Coluzzi, giornalista del quotidiano Il Mattino. Giuseppe Salvia era il vicedirettore e il responsabile del reparto di massima sicurezza del carcere di Poggioreale, ucciso nel 1981 dalla Nuova camorra organizzata di Raffaele Cutolo in un agguato sulla tangenziale di Napoli. A lui è stata intitolata nel 2013 la casa circondariale napoletana.
E ancora Cafiero de Raho: «Salvia impose delle regole all’interno del carcere, per cui le stesse perquisizioni che venivano fatte agli altri detenuti dovevano essere fatte anche a Cutolo, che doveva togliere le scarpe così come gli altri detenuti dopo ogni colloquio. La regola è disciplina secondo Salvio e questa va osservata da tutti».
Il procuratore ha poi evidenziato: «Il nostro sistema va notevolmente migliorato sia per quanto riguarda le cautele sia l’esecuzione della pena. Il carcere deve essere il percorso di rieducazione finalizzato all’inserimento sociale. Però il percorso non consente di verificare esattamente quale è stato questo recupero da parte del detenuto. Quindi, rispetto a un percorso penitenziario di rieducazione, quello che effettivamente è la proiezione del detenuto non viene mai acquisita. Non c’è una capacità preventiva di prevedere quale sarà il comportamento successivo del detenuto. Perché quello che viene fatto all’interno del carcere non lo consente. Quindi, noi abbiamo camorristi, mafiosi, che continuano il loro colloqui con i familiari che sono all’interno di contesti mafiosi o camorristici. Sicché anche se all’interno del carcere c’è un percorso finalizzato a rieducare il detenuto, resta il contesto esterno che è quello nel quale il detenuto quando esce si ritroverà».
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