La vita fragile, quel prezioso limite che merita tutto l’ascolto
Lucio Romano (Comitato Nazionale per la Bioetica)
– La vita fragile* è costitutiva della natura umana, sia nella visione sostanziale della sua essenza che in quella funzionale dell’esistenza. In un ambito biomedico – quando la fragilità si accompagna a situazioni di particolare vulnerabilità fisica e/o psichica – così nelle “periferie esistenziali” delle emarginazioni e delle deprivazioni sociali. Umanità sofferenti che, a fronte di fuorvianti derive ideologiche dalle antitetiche posizioni (dall’abbandono eutanasico all’ostinazione irragionevole come nel dibattito su “fine vita” e “testamento biologico”), interpellano saperi e coscienze, responsabilità e solidarietà; sollecitano piuttosto dialogo e incontro.
Si richiede non solo intersoggettività (essere con un altro) ma soprattutto reciprocità (essere per un altro) nella piena consapevolezza che dall’incontro tra vite fragili si segna non il perimetro entro cui limitare il proprio conveniente agire piuttosto lo sconfinato orizzonte dell’alleanza di cura. Dallo scontro ideologico tra posizioni irriducibilmente identitarie si rischia di ratificare la legittimazione che le vite fragili e vulnerabili possono essere governate solo nell’approssimativa semplificazione di una questione puramente quantitativa (c.d. qualità di vita”). Insomma una visione neo-contrattualista del valore “fragilità” e, potremmo dire, del senso e del significato della vita umana.
La vita fragile, limite insuperabile della vita personale, evoca ascolto e incontro che nella relazione tra persone rilevano la loro preziosità. “La vita umana non è preziosa nonostante la fragilità, ma proprio grazie alla sua fragilità; è preziosa non soltanto perché è unica, ma anche perché è capace di dare e ricevere cura”. Prendersi cura è paradigma dell’umano, è “forma di relazione tra persone fragili” che coniuga equità ed eguaglianza, libertà e responsabilità, socialità e sussidiarietà.
Negare cura significa, evidentemente, contraddire la costitutiva relazionalità dell’umano che nella fragilità trova il suo fondamento; significa disconoscere l’imperativo morale dell’alleanza. La vita fragile prevede la inguaribilità ma non deve mai essere esclusa la curabilità nella proporzionalità. Il tema di fondo, che interpella soprattutto nell’epoca definita della globalizzazione del paradigma tecnocratico, è quello del “limite” in situazioni cliniche di inguaribilità. La prospettiva etico-assistenziale è che alla inguaribilità corrisponda sempre la doverosità della curabilità ovvero del prendersi cura.
Nel paradigma della cura non si rilevano giustificazioni per il ricorso a terapie futili, sproporzionate o con ostinazione irragionevole; si sostiene invece il ricorso alle cure palliative, alle terapie del dolore, alla sedazione profonda continua in imminenza di morte. Procedure che assicurano dignità umana nell’accompagnamento del morire, contrastando solitudine e dolore nella “prossimità responsabile”.
Tuttavia possono interporsi anche altri parametri, certamente condizionanti, di natura soggettiva o sociale, quali la valutazione sulla “qualità” o la “quantità residuale” della vita, che possono o coagire nel discernimento sulla proporzionalità/sproporzionalità del trattamento oppure anteporsi sotto forma di “pre-determinazione”. In quest’ultima accezione non è più l’obiettiva condizione clinica che, dall’incontro tra medico e paziente nel bilanciamento tra oggettività del trattamento e percezione soggettiva, porta a una decisione condivisa nella cura anche quando la malattia è inguaribile, piuttosto la definizione di proporzionalità/sproporzionalità è assunta nella “pre-determinazione o pre-comprensione”, appunto personale o sociale, del valore vita in determinate situazioni cliniche. È questa una cultura che può portare a determinare il valore vita in base alla sua espressione di funzionalità (c.d. funzionalismo) su un piano di pre-giudizio, individuale o sociale, che parametra la dignità del vivere e del vivente in ragione delle funzioni in grado o meno di esprimere. Risulta evidente che sul parametro della funzionalità o della quantità residuale della vita si giustificherebbe, secondo alcuni, il non ricorso o la sospensione di ogni trattamento per quanto di cura e sostegno vitale. In sintesi, il discernimento in merito alla proporzionalità/sproporzionalità di un trattamento clinicamente indicato richiede un bilanciamento che coniughi la valutazione clinica e la tutela della vita, evitando gravose sofferenze (ortotanasia).
In sintesi, le malattie possono essere inguaribili ma tutte sono curabili, vale a dire che è dovere biomedico ed etico prendersi sempre cura. Il prendersi cura è manifestazione concreta dell’alleanza e della relazione che non possono essere comprese nell’angusto perimetro della contrattualizzazione che sempre più condiziona l’assistenza alle vite fragili e vulnerabili.
* «La vita fragile» è stato il tema dell’incontro organizzato ad Aversa dal Rotary Club Aversa Terra di Lavoro in collaborazione con l’Ordine dei Medici Chirurghi ed Odontoiatri di Caserta di cui è presidente Maria Erminia Bottiglieri. L’iniziativa si è tenuta nella sala Pinacoteca del Seminario Vescovile e ha visto l’intervento conclusivo del Vescovo di Aversa Mons. Angelo Spinillo.
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