Parkour. Una parola al mese. Rubrica a cura della Parthenope
(Francesca Brancaccio) – Grattacieli che si ergono imponenti, panchine, palazzi, muretti, ringhiere, cancelli, pareti: per i traceurs, gli atleti che praticano il parkour, rappresentano una sfida continua, il desiderio costante di superare ogni tipo di limite umano. Si muovono da un punto all’altro della giungla cittadina con destrezza e agilità, usando tutte le capacità del corpo umano. È in questa scioltezza, in questa elasticità dei movimenti, che vanno ricercate le origini del termine parkour.
La parola nasce a partire dalla parola francese parcours con un chiaro riferimento ai parcours du combattant, o percorsi di addestramento, proposti da Georges Hébert: da ufficiale della Marina ebbe modo di viaggiare per tutto il mondo, rimanendo molto impressionato dallo sviluppo fisico e dall’abilità di muoversi degli indigeni d’Africa. Sintetizzò la sua idea di allenamento naturale in quello che è passato alla storia come motto dell’hébertismo: “essere forti per essere utili”.
La paternità del parkour è attribuita a David Belle: egli, attorno agli anni ‘80, pose, nella piccola cittadina di Lisses a sud di Parigi, le fondamenta alla pratica ludico-sportiva che oggi conosciamo. Era figlio di un pompiere, il quale era stato addestrato proprio con il metodo hébertiano e aveva instillato nel figlio i semi di quella che sarebbe diventata la filosofia del parkour.
Fu un amico di David Belle, l’attore Hubert Koundé, che nel 1998 consegnò alla storia il termine parkour così come oggi lo troviamo all’interno dei nostri dizionari: nel termine di partenza parcours pensò bene di sostituire la “c” con la “k” perché suggerisse maggiore aggressività e di eliminare la “s” muta in finale di parola perché sembrava contrastare con l’idea di efficienza che doveva suggerire il parkour.
Se in un primo momento fu il passaparola a portare questa disciplina fuori dal sobborgo parigino, ancora una volta dobbiamo ringraziare i media se possiamo fantasticare su quanto noi stessi saremmo in grado di sfidare le nostre potenzialità da seduti sul divano, mangiando popcorn e passando da un video all’altro su Youtube.
Un articolo reperibile nell’Enciclopedia Treccani traccia il percorso che la parola compie in Europa: nel 2002 arriva in Gran Bretagna; nel 2003 è già presente nell’italiano scritto della rete. Ancora oggi Treccani annovera il termine tra i neologismi. È il Dizionario Garzanti a fornirne la definizione di “sport metropolitano che consiste nell’affrontare un percorso a piedi superando tutti gli ostacoli nel mondo più efficiente e fluido possibile”. Nessun riferimento, dunque, alle basi ideologiche che avevano portato a definire in un primo momento il parkour come “arte dello spostamento”: non un mero sport, ma un’arte che si costruisce con esercizio, fatica, ascolto del proprio corpo, aumento della fiducia nelle proprie potenzialità.
*Francesca Brancaccio – Università degli Studi di Napoli “Parthenope”
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