Problemi di lingua, quel pasticciaccio brutto del “green pass”
– La lingua, come la storia dell’umanità, è in continua evoluzione, anche se in alcuni casi si parla, non senza ragion di causa, di involuzione. Essa sembra essere in un primo momento vittima, ma nell’istante successivo non esita a vestire i panni del carnefice (non necessariamente l’ordine è questo). “Vittima” perché influenzata dai nuovi eventi che prendono vita in un circoscritto periodo spazio-temporale e che spesso la colgono alla sprovvista, impreparata a far fronte alla nuova realtà che le si presenta dinanzi. “Carnefice” perché è essa stessa poi a imporre i suoi dettami, a influenzare le coscienze, a dirigere una certa tipologia di pensiero. In ogni caso, è lapalissiano constatare che avvenimenti di portata mondiale – come la pandemia da Covid-19 a cui stiamo assistendo dal 2020 – diventino terreno fertile per la proliferazione di nuove espressioni linguistiche, neologismi, prestiti da altre lingue, i quali – se non attentamente verificati e vagliati dagli addetti ai lavori – rischiano di diventare “nodo o groviglio, o garbuglio, o gnommero, che alla romana vuol dire gomitolo”, per dirla con Gadda.
È il caso dell’ormai famigerato green pass, scorciatura di Digital Green Pass. Lemmatizzato dalla Treccani come neologismo nel 2021, questo termine di matrice inglese viene utilizzato in Italia per indicare indifferentemente le certificazioni all’interno del Bel Paese e quelle valide in tutta l’Unione europea attestanti la propria immunità da Covid-19. Esso viene generato automaticamente una volta soddisfatti i requisiti di avvenuta guarigione, vaccinazione o tampone negativo. Tuttavia la dicitura inglese adottata delle istituzioni europee non è green pass, bensì EU Digital Covid Certificate, il cui ufficiale traducente italiano è “Certificazione verde COVID-19”. Con il nobile scopo di dare trasparenza alla comunicazione e giusto credito alla lingua italiana, l’Accademia della Crusca suggerisce di evitare di utilizzare l’infelice ed equivoco (poiché polisemico) green pass e di preferire invece uno dei suoi tre traducenti italiani: “certificato Covid”, “certificato vaccinale” o “passaporto vaccinale” – tutti calchi strutturali dall’inglese (rispettivamente Covid certificate, vaccine certificate, vaccine passport).
Normativamente, questi equivalenti sono tutti corretti ma la forma in assoluto più utilizzata rimane l’anglicismo green pass. Esso è così diffuso in Italia ormai che si direbbe venga utilizzato anche in altri Paesi, europei e non, o quantomeno in quelli anglofoni, ma sorprendentemente tale collocazione non ha preso piede ovunque. Nel mondo anglofono il green pass è assente nell’Oxford English Dictionary (OED), “tanto da far sospettare la presenza di uno pseudo-anglicismo”, chiosa la Crusca. Per indicare l’attestazione di immunità da Covid-19, in Germania e Austria si parla piuttosto di Impfzertifikat o Impfnachweis, in Spagna di Certificado COVID Digital. In Francia il termine consacrato sembra essere pass sanitaire o, per antonomasia, le pass. È curioso, sebbene comprensibile, constatare che nel Québec è invece scoraggiato l’uso di pass sanitaire in voga in Francia, in quanto il lemma pass rimanderebbe troppo alla forma inglese e non si integrerebbe adeguatamente al sistema linguistico del francese – come ammonisce l’Office québécois de la langue française (OQLF). Le alternative proposte dall’OQLF sono passeport vaccinal/sanitaire/immunitaire o laissez-passer sanitaire.
Ma da dove deriva allora questo equivoco pandemico così diffuso in Italia? Nei media, le prime attestazioni risalgono a partire da metà febbraio 2021, nelle notizie su Israele, dove in inglese è stata chiamata green pass (in ebraico תו ירוק “etichetta verde”) l’attestazione digitale che consente ai vaccinati di accedere ad attività commerciali e uffici. “Go be vaccinated. Accept the Green Pass and start getting back to life”, twittava l’allora primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu. Il nome venne scelto in riferimento alla luce verde del semaforo che indica via libera: infatti in ebraico l’applicazione che genera l’attestazione si chiama Ramzor – Traffic Light App in inglese. “Da allora i media italiani hanno usato il nome israeliano anche per le certificazioni italiane ed europee, senza verificare che corrispondesse effettivamente ai nomi usati dal Ministero della Salute e dalle istituzioni europee”, puntualizza acutamente Licia Corbolante nel suo blog Terminologia etc.
Tuttavia, come segnala anche la Crusca, pare che la schiacciante frequenza di questa locuzione in Italia sia stata inevitabilmente agevolata dalla presenza di lessemi contenenti la parola green (ad esempio, green economy) sempre più circolanti e favorevolmente accolti in italiano negli ultimi tempi, complice anche la lotta, tanto di tendenza quanto necessaria, contro i cambiamenti climatici a livello mondiale. L’aggettivo green, però, letteralmente “verde” e lemmatizzato come neologismo nei dizionari italiani a partire dal 2012 (Treccani), vuol dire “ecologico”, “ecosostenibile”, “rispettoso dell’ambiente”. Nulla a che vedere con la “Certificazione verde COVID-19” digitale e cartacea, che tra l’altro, a differenza del green pass israeliano, di verde non ha nulla (eccetto il colore che appare sull’app di verifica se la certificazione è valida); essa solitamente riporta i colori blu e giallo dell’Unione europea.
In conclusione, questa incongruenza terminologica sembra confermarsi come il risultato di una comunicazione poco attenta dei media durante la pandemia. L’imposizione di un uso improprio e affrettato di anglicismi e la mancata verifica terminologica di fonti ufficiali e accreditate danno vita a veri e propri pasticci linguistici. Tra i buoni propositi del nuovo anno 2022, auspichiamo si rinnovino le basi per una seria cultura terminologica che, con la complicità di una maggiore collaborazione tra le parti (media e istituzioni), assicuri una comunicazione sempre più limpida e scongiuri il rischio dell’ennesimo trionfo del Caos sul Logos.
*Dottorato in Eurolinguaggi e Terminologie Specialistiche – Università degli Studi di Napoli “Parthenope”
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