Transgender, dal linguaggio inclusivo alla grammatica neutra
– Termine “ombrello” proveniente dall’inglese, transgender (trans “al di là” e gender “genere sessuale”) è usato per riferirsi a tutte quelle persone che hanno un’identità e/o un’espressione di genere che si discosta dal sesso assegnato alla nascita.
L’identità sessuale è definita secondo tre parametri: sesso, genere e orientamento sessuale. Il sesso corrisponde al corpo sessuato e quindi, alla dimensione fisica: essere maschi significa possedere il cromosoma X e Y, essere femmine avere due cromosomi X. Il genere rappresenta una dimensione culturale riferendosi a un sentimento di appartenenza e di identificazione con l’idea presentata dalla società di mascolinità e femminilità. L’orientamento sessuale pertanto, è l’attrazione emozionale, romantica e sessuale di una persona verso individui di sesso opposto, dello stesso sesso o entrambi.
Essere transgender, quindi, significa adottare un atteggiamento sociale e sessuale che talvolta può anche assumere caratteristiche sia del genere maschile che di quello femminile senza però mai veramente identificarsi in uno dei due (persone non binarie) o sfociare in un’identità di genere fluida, che cambia di intensità di momento in momento (gender fluid). Talvolta però, quando una persona transgender nutre un senso di non accettazione verso il proprio sesso, può ricorre a interventi chirurgici che la portano all’acquisizione di caratteri somatici appartenenti al sesso opposto (transessuale). Nonostante i numerosi termini che la parola transgender comprende, è possibile affermare che vivere questa condizione significa desiderare di andare oltre il concetto di binarismo di genere, senza definirsi o limitarsi nel ruolo imposto dalla società, superando la semplificazione dei concetti dualistici.
Già radicata nella mitologia greca, la figura del transgender è rappresentata da Dioniso, il dio dell’ebbrezza, considerato per eccellenza una divinità in grado di assumere sembianze sia maschili sia femminili e viceversa. La sua natura androgina si afferma sia come fatto puramente anatomico sia come modo di essere sociale e psicologico, anticipando la differenza tra genere e sesso. Una divinità che rifiuta qualsiasi tipo di confinamento ma che, come ricorda un suo soprannome, Lysios “colui che scioglie”, tende alla dissoluzione, alla liberazione diventando un dio di passaggio in cui tutti gli opposti, vita e morte, natura e cultura, razionale e irrazionale, maschile e femminile, ordine e caos, trovano un equilibrio verso un’accettazione reciproca e unitaria.
Coniato per la prima volta nel 1965 da John F. Oliven, psichiatra della Columbia University, il termine si è diffuso poiché diverse persone transessuali, transgender e crossdresser iniziarono a farne uso, come l’attivista Virginia Prince, che nel dicembre del 1969 lo utilizzò nel numero della sua rivista Transvestia, magazine nazionale per persone crossdresser. Nel 1992, l’International Conference on Transgender Law and Employement Policy definisce la parola, “termine ombrello”, includente quindi tutte le non conformità di genere. A portare per la prima volta la parola in Italia fu la cantante e scrittrice transgender Helena Velena con la pubblicazione del saggio Dal cybersex al transgender: tecnologie, identità e politiche di liberazione, nel 1998. Dalla prima affermazione del termine si è passati alla fondazione di una giornata specifica, la giornata internazionale della visibilità transgender, con una ricorrenza annuale che cade il 31 marzo, grazie all’attivista transgender statunitense Rachel Crandall, che affermò la necessità di una giornata da dedicare alla sensibilizzazione contro le discriminazioni verso le persone transgender in tutto il mondo.
Nel dibattito sociale e politico attuale, non meno importante risulta essere la ricerca di un linguaggio più inclusivo. L’Oxford English Dictionary introduce, oltre a “Mr” (signore), “Mrs” (signora) e “Mss” (signorina), il titolo “Mx” per riferirsi a persone transgender e per indicare il genere neutro all’interno dei documenti ufficiali. Una rivoluzione dunque, che segna la necessità di un linguaggio che sappia adattarsi ai cambiamenti sociali, che sia in grado di rappresentare tutte le identità di genere esistenti e che, attraverso l’affermazione di una grammatica “neutra”, renda indistinguibile il maschile e il femminile. Alcuni esempi di una grammatica inclusiva potrebbero essere l’utilizzo della –u al posto degli articoli come in alcuni dialetti e lingue del centro e sud Italia, rievocando così una connotazione politica importante per la neutralità della lettera. L’uso dell’asterisco che permette di troncare le desinenze maschili e femminili, la schwa fonetica che crea un plurale condiviso, la chiocciola che, per includere il maschile e il femminile, utilizza un simbolo a sé in cui fonde la –a e la –o insieme e infine, la –x che, da incognita usata nelle equazioni, in lingua inglese è usata per rendere neutrali le parole.
Se è attraverso il linguaggio che si stabilisce cosa è possibile e cosa non lo è, sembra allora indispensabile partire dalla sua trasformazione per dare maggiore visibilità alle persone transgender all’interno del contesto sociale contemporaneo affinché queste possano non essere più considerate attraverso il filtro del pregiudizio ma, sensibilizzando all’accettazione e all’inclusione, si sia in grado di garantire loro una totale libertà di espressione.
*Università di Napoli “Parthenope”
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