Un elefante a corte, quel fascino dell’esotico caro ai Borbone
– Presso la Reggia di Caserta sono esposti un dipinto e una piccola scultura in terracotta raffiguranti entrambe un elefante indiano. Nella prima opera, realizzata dal pittore e ufficiale borbonico Pellegrino Ronchi, è rappresentato il grosso pachiderma di profilo, mentre dietro di lui si staglia la figura di un inserviente vestito alla turca. In basso, a destra, è riportata la seguente iscrizione: Euqes Felix Peregrinus Ronchi Patricius Bonionensis in Regimine Prime Cohortis Borbonensis Logotens, ex ipso vivo Elephanti qui in Regii Borbonii [asservatur adamuensis] affixit. Neap. 1743.
Per quanto riguarda la statua, trattasi di un lavoro di Gennaro Reale, autore già attivo a palazzo e impegnato nell’esecuzione di numerose decorazioni per gli appartamenti reali. Tutte e due le opere, insieme a un’altra tela di Giuseppe Bonito, ora conservata presso il Palazzo Reale di Riofrio a Segovia in Spagna, costituiscono le testimonianze relative all’arrivo di un elefante alla corte di Carlo Borbone.
Il grosso animale giunse nel 1742 a Napoli come dono del sultano ottomano Mahmud I in cambio di pregiate tavolette di marmo, ma anche per sancire gli accordi siglati a seguito del Trattato di Navigazione e Commercio stilato tra i due regnanti. Considerata la sua mote, l’elefante venne allocato presso la Reggia di Portici. La sua presenza attirò molte persone, provenienti per la maggiore dai vicini paesi vesuviani, le quali per vederlo elargivano una mancia al soldato che lo teneva in custodia. La sua dimensione esotica lo rese, poi, protagonista nella rappresentazione teatrale del dramma Alessandro nelle Indie, di Pietro Metastasio, messa in scena al San Carlo nel gennaio del 1743. Contestualmente, venne impiegato per alcune parate cittadine. Non ebbe vita longeva, difatti nel 1756 cessò di esistere, ammalandosi probabilmente a causa delle condizioni climatiche non favorevoli al suo corpo e della scorretta alimentazione che riceveva. Dopo il suo decesso, ne vennero asportati la pelle e lo scheletro; successivamente tali resti vennero montati su di un supporto metallico ed esposti all’interno del Museo Borbonico, oggi Museo Nazionale Archeologico di Napoli. Dopo alterne vicende e non pochi trafugamenti delle sue spoglie, le parti sopravvissute vennero portate, nel 1819, al Museo Zoologico, oggi di pertinenza dell’Università Federico II, dove ancora sono visibili. Sulla triste vicenda dell’elefante borbonico, vi ritornò, dopo molti decenni, il filosofo Benedetto Croce, il quale ne ricordò il noto detto popolare dell’epoca, Caporà, è mmuort’ l’alifante, un’evidente allusione alla fine di una situazione che agli occhi dei tanti risultava esser favorevole, soprattutto per i suoi improvvisati guardiani che dalle mance dei tanti curiosi ne avevano tratto un bel profitto.
Luigi Fusco – Docente di italiano e storia presso gli Istituti Superiori di Secondo Grado, già storico e critico d’arte e guida turistica regione Campania. Giornalista pubblicista e autore di diversi volumi, saggi ed articoli dedicati ai beni culturali, alla storia del territorio campano e alle arti contemporanee. Affascinato dal bello e dal singolare estetico, poiché è dal particolare che si comprende la grandezza di un’opera d’arte.
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