Vanvite’, te piace ‘o presepio? E lui: Efficaci questi napoletani
-Quando l’architetto Luigi Vanvitelli giunse da Roma a Napoli, per ricevere il prestigioso incarico da parte di Carlo di Borbone per la costruzione della nuova Reggia a Caserta, da “forestiero”, qual era, si attivò per conoscere usi, costumi e tradizioni tipiche dei napoletani e più in generale dei campani. La sua, però, non era semplice curiosità, poiché ogni volta che si apprestava ad indagare fatti o situazioni, che per lui erano totalmente inediti, adottava un metodo quasi scientifico, in cui, spesso, tendeva a far prevalere la sua verve critica. Del resto, dal punto di vista culturale, Vanvitelli vedeva il mondo e la natura delle cose in modo razionale; per quanto riguarda, invece, la sua idea di estetica, forte era la sua adesione ai canoni classicheggianti e proto-barocchi; infine, per quanto riguarda la sfera della fede, era pervaso da moderati sentimenti cristiani che poco si allineavano con quelli esasperanti o di natura superstiziosa tipici della religiosità partenopea. Pertanto, fra le varie tradizioni, con cui egli venne a contatto, poco l’entusiasmò quella del presepe. Al riguardo, l’architetto, già nel gennaio del 1752, incuriosito da questa consuetudine, chiese il permesso al sovrano di andare a Napoli per vedere da vicino li presepii, per poi affermare che: “in vero tanto sono goffi nel resto, altrettanto sono abili in questa ragazzata, nella quale si applicano efficacemente questi napoletanì”.
Ancora, nel 1766, Vanvitelli ritornò sullo stesso argomento. Ritrovandosi nella capitale, con un suo ospite, dopo aver assistito a due spettacoli al San Carlo decise di andar a vedere il presepe che si friccica, caratterizzato dalla presenza di statue in movimento. In merito, l’architetto, in una lettera scritta a suo fratello Urbano, ne riportò una dettagliata narrazione, esprimendosi nel seguente modo: “Il presepio che si friccica era cosa rarissima ed incredibile, anche a Roma vi sono dei presepi che si muovono li pupazzi ma alla muta. Qui vi era il butta fora, cioè un lazzarone, il quale spiegava la commedia al folto popolo concorrente”; oltre a ciò, Vanvitelli, si soffermò nella puntuale descrizione dei personaggi raffigurati, evidenziandone le caratteristiche più rare, come quelle di Fra Paolo, delle gnorelle che facevano l’amore co’ morosi, del chierico che serviva la messa, del fornaio che preparava il pane per zi’ Carmeniella, delle Compagnie dei Granatieri e di tante altre fantasiose figure. Nuovamente, Vanvitelli aggiunse pure: “che dopo lo sparo del cannone dal Castello…usciva fuori un guaglione che [alzandosi la camicia] schizzava pisciando gli uditori…strillando [poi] fermete alloco, chià, chià, porciello, to boglio sculaccià”. Tutte queste singolari visioni, gli consentirono di chiudere la lettera con le seguenti parole: “io mi sono contentato sentirne relazione, perché non avrei potuto contenermi di prorompere in qualche dileggiamento”.
Docente di italiano e storia presso gli Istituti Superiori di Secondo Grado, già storico e critico d’arte e guida turistica regione Campania. Giornalista pubblicista e autore di diversi volumi, saggi ed articoli dedicati ai beni culturali, alla storia del territorio campano e alle arti contemporanee. Affascinato dal bello e dal singolare estetico, poiché è dal particolare che si comprende la grandezza di un’opera d’arte.
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